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Chi ha paura del residuo fiscale? (di Franz Forti)

Ogni qualvolta si affronta il tema del federalismo, prima o poi bisogna fare i conti con quel convitato di pietra che viene subito evocato, come un riflesso pavloviano: i residui fiscali.

Meglio quindi prendere subito il toro per le corna. Di tabelle che illustrano questi residui ne circolano parecchie. A grandi linee i numeri sono tutto sommato grossolanamente corretti anche se non reggono ad un’analisi approfondita. E soprattutto a parte quelli che circolano con il classico copia&incolla, non quadrano tra loro. Il perché è presto detto: si basano su diverse fonti (Istat, RGS, cpt, BdI, …) che usano principi contabili differenti su come attribuire le singole voci. Inoltre molto dipende da come valutare il pesante macigno della spesa previdenziale e del debito pubblico. Perché alla fine l’obbiettivo parte dal tentativo di imputare ad ogni singola regione tutte le spese e le entrate dello Stato (regionalizzazione) per vedere se spese e tassazione sono bilanciate. Alla fine si finisce solo col mostrare come alcune regioni paghino di più di quanto ricevano e molte di più ricevano come spese più di quanto paghino come imposte. Che poi bisognerebbe guardare alla qualità di queste spese, ma di questo parleremo un’altra volta. Perché questo argomento dei residui viene subito citato quando si parla di federalismo? Provo a spiegarlo con questa prima tabella (BdI, Economie regionali, pag 91).

(tabella 1)


Un abitante della Sardegna guarda le ultime righe e realizza che ad essere indipendente ha tutto da perderci, mentre un lombardo, un emiliano ed un veneto invece si chiedono subito “perché no?”. Ma come dicevo quelle imputazioni contabili cercano di attribuire il maggior volume di spesa alle regioni. Senza tra l’altro riuscirci, perché non tutte le voci di spesa possono essere attribuite ai territori. Anche se fosse possibile però cosa c’entra tutto questo con il federalismo? Ben poco. Pensate veramente che in un paese federale tutte le spese possibili siano attribuite al livello locale? Assolutamente no. Le spese militari, per esempio, sono tipicamente attribuite al livello centrale. Eppure le troviamo, regionalizzate, attribuite alle regioni. E non solo quelle. Anche la previdenza, la politica estera e diverse altre. A conti fatti solitamente il 50% delle spese sono federali e l’altro 50% è locale (Stati, contee o distretti, comuni). Ogni nazione federale ha una sua particolare ripartizione, che dipende dalle decisioni politiche singole e comuni. In Svizzera per esempio poco più del 40% è federale, un altro 40% è cantonale ed il rimanente 20% è comunale, dato che però varia da cantone a cantone. In nessun paese federale la “regionalizzazione” totale all’italiana avrebbe senso. In realtà il vero metodo per capire quali sarebbero le spese locali (comunali, provinciali, regionali) in un contesto federale è stabilire prima di tutto quali compiti sarebbero attribuiti ai vari livelli, quali risorse finanziarie (e quindi anche fiscali) ogni territorio potrebbe gestire in modo autonomo. Fatto questo, dovremmo partire dal basso, dalle città e dai comuni. Bisogna comprendere che già solo cambiando l’assetto della spesa e delle entrate tramite la responsabilizzazione, ecco che l’eliminazione della finanza distribuita innesca un circolo virtuoso che diminuisce le spese aumentandone la qualità. Quando ogni comunità è responsabile, perché paga di tasca sua le proprie decisioni di spesa, salvo l’eventuale eccezione della compartecipazione per gli investimenti, ecco che arriva ad un diverso equilibrio tra entrate ed uscite. A riprova il fatto, incontrovertibile, che per IMF la somma della spesa pubblica italiana ammonta al 48~49% del PIL mentre quella svizzera è tra il 31~32%. Quindi parlando di federalismo posso supporre che l’esperimento modifichi la realtà e non abbia senso pensare di trasferire pari-pari l’elefantiaca spesa pubblica italiana alle comunità locali. Ma anche per le competenze in cui la spesa è molto simile ci sono sorprese. Nel merito ho provato a confrontare la spesa regionalizzata italiana messe in carico alla Sardegna nel settore educazione con la stessa voce in Svizzera. Secondo i dati ISTAT del 2017, alla voce Istruzione pubblica la spesa in Sardegna è il 6.02% del Valore Aggiunto di quella regione.

Non è dato sapere come questa spesa venga ripartita all’interno della regione (nelle province) ma il 6% è comunque un onere che qualsiasi comunità di un paese occidentale può sopportare. Per quanto riguarda la Svizzera la spesa educativa è il 5.64% del PIL di cui l’1% in carico ai comuni, che pagano asili ed elementari con la loro fiscalità autonoma, il 3.2% ai cantoni che fanno altrettanto seguendo tutto dalle medie all’università, ed infine il livello federale (1.44% del PIL) che si occupa dei due politecnici federali, finanzia parte delle spese per la formazione professionale e la ricerca scientifica, per esempio il CERN di Ginevra.

I dati PISA ci mostrano che a fronte di una spesa complessiva leggermente inferiore, l’approccio federalista svizzero raggiunge risultati qualitativi migliori. È quindi possibile spendere meno ed ottenere risultati di alto livello. A questo punto che senso ha, veramente, tirare in ballo l’argomento dei residui fiscali quando si parla di federalismo? Oggi gli stipendi dei dipendenti pubblici sono identici su tutto il territorio nazionale ma in un assetto federale sarebbe ancora così? Per me non c’è dubbio che al Nord gli stipendi pubblici siano troppo bassi, inadeguati all’elevato costo della vita e dovrebbero essere aumentati localmente. Al Sud invece sono stipendi decisamente sovradimensionati rispetto al costo della vita e potrebbero rimanere tali, riducendo gli organici, oppure essere anche ridotti, per contribuire ad abbassare le imposte locali e attirare attività economiche, dando così più lavoro e più reddito. E quindi gettito. Alla fine anche il gettito, in un sistema a finanze separate, non è più comparabile con quello che oggi avviene in Italia. Ogni stato ed ogni comune avrà la sua raccolta tributaria, le sue aliquote, le proprie deduzioni e detrazioni e sarà in competizione con altri per attirare contribuenti, o almeno non perderli. Questo viene fatto offrendo servizi di qualità al minor costo fiscale possibile. Il tutto senza nulla togliere alla possibilità di cooperare tra territori quando la collaborazione, come spesso accade, è vincente. Quelle comunità locali che riescono a contenere le spese, eliminando sprechi e assistenzialismo a vantaggio di servizi di buona qualità (scuole, sanità, trasporti, ambiente, …) potranno attirare nuovi contribuenti. L’attrattività sarà duplice, sia sul livello impositivo sia sulla qualità dei servizi. In questo modo chi ora è svantaggiato avrà in mano un potente strumento per risalire la china.

Ma chi paga le imposte e a chi? A questo punto penserete giustamente che siccome è la somma che fa il totale, tutti dovranno comunque pagare anche la quota di imposte federali (a copertura delle spese che rimangono in carico a livello centrale) e non solo quelle locali. Ma il totale sarà sempre lo stesso? Io penso di no. Sono relativamente sicuro che la combinazione dei principi di responsabilità locale, sussidiarietà e autonomia, possa comportare localmente una migliore qualità dei servizi ad un costo fiscale inferiore. Magari non subito, il giorno dopo, ma la prospettiva in un decennio vedrà quella tendenza. Inoltre il fatto che lo stato centrale si occuperà di un numero inferiore di compiti, aiuterà anche quel necessario dimagrimento. Molto dipenderà da quali strumenti tributari saranno affidati ai vari livelli. Di principio ritengo che l’imposizione diretta a persone fisiche e giuridiche debba rimanere prevalentemente locale e che il livello centrale-federale debba essere finanziato con l’imposizione indiretta. Questa ripartizione evita qualsiasi rischio di doppia imposizione. Se partiamo dall’ipotesi che almeno il 50% della spesa (e quindi della necessità di gettito) diventi locale e il restante 50%, se non di meno, rimanga “federale”, la suddivisione netta del gettito tra imposte dirette e indirette sembra fattibile. A prescindere dal fatto che le previsioni di gettito (cassa) dei prossimi tre anni siano ancora valide, vista l’attuale crisi, la ripartizione generale appare applicabile.

(tabella 2)


Ci sono poi altri 56 miliardi di entrate extra-tributarie che potrebbero essere ripartite tra i vari livelli e ci sono anche gli incassi da privatizzazioni. La previdenza è esclusa da ogni ripartizione ma le missioni assistenziali di INPS invece devono essere attribuite. A questo punto l’unica obiezione reale che vedo riguarda il rapporto tra spesa locale (attuale) ed il PIL locale. Per esempio nella tabella 3) si può notare come diverse regioni del Sud abbiano, secondo il calcolo dei residui fiscali, un onere di spesa eccessivo rispetto al PIL. Per contro le regioni più ricche del Nord avrebbero una spesa pubblica inferiore. Questo suggerisce che anche l’onere fiscale sarebbe equivalente?

Per esempio possiamo ipotizzare che la pressione fiscale della Lombardia per finanziare la sua spesa regionalizzata potrebbe essere pari al 7.15% del suo PIL, quasi la metà del valore medio nazionale?

O che la Sardegna dovrebbe sobbarcarsi un onere fiscale pari quasi al 30% del suo PIL per gestire sostanzialmente la stessa spesa? Più del doppio? Quanto discusso in precedenza ci dice di no ma svela anche un altro aspetto critico dei calcoli fatti da chi regionalizza le spese. Gli importi di spesa a volte sono locali ed a volte sono costruiti in base a costi standard e fissi, uguali per tutti. Eppure non c’è motivo per cui un territorio economicamente svantaggiato, quindi con una bassa capacità finanziaria, dovrebbe avere una spesa basata sugli stessi prezzi di una regione ricca. Per assurdo sarebbe come pensare che la spesa pubblica di un paese povero africano sia basata sugli stessi costi e prezzi della Svizzera. In realtà se facciamo calcoli in proporzione al PIL, non c’è motivo per cui a parità ipotetica di spesa, tutti i territori spendano un importo percentualmente simile e prossimo alla media. (tabella 3)

Sicuramente ci saranno territori che riusciranno ad essere più virtuosi, spendendo meno ed altri che spenderanno di più ma non è verosimile che la forbice tra minimo e massimo rimanga quella che ci viene mostrata dai residui fiscali, dove la regione più appesantita ha il quadruplo di spesa e quindi di necessità di gettito della regione più ricca. Il federalismo, con le sue finanze separate, permette proprio di gestire in autonomia le spese ed il gettito relative ai compiti assegnati. A ben vedere questo diventa un grosso vantaggio potenziale per le regioni che attualmente hanno un PIL basso e potrebbero avere un basso e attrattivo profilo fiscale. A questo punto la decisione di assegnare le imposte indirette al livello federale può avere anche risvolti positivi. Nel caso dell’IVA, regioni povere dove i consumi sono limitati, pagheranno meno e gran parte del gettito arriverà da regioni ricche, dove i consumi sono elevati. Certo che sarebbe meglio abbassare le aliquote, per diminuire l’effetto regressivo che l’imposizione indiretta ha, ma ci si potrà arrivare con gradualità. Anche perché se veramente funziona avremo che il Sud, chiamando attività e lavoro, diventerà gradualmente più benestante e competitivo. Il che è l’obbiettivo di ogni unione federale. Concludendo: chi ha paura dei residui fiscali?


Francesco (Franz) Forti, Lugano, Svizzera

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